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Julio Sergio e il figlio morto di tumore: “Dal primo mal di testa al coma, poi mi disse ‘sono stanco’. Il dolore non se ne andrà mai”

Julio Sergio e il figlio morto di tumore: “Dal primo mal di testa al coma, poi mi disse ‘sono stanco’. Il dolore non se ne andrà mai”

Julio Sergio Bertagnoli, ex portiere della Roma che di recente ha dovuto un dramma familiare che ha travolto la sua vita, ha parlato oggi al Corriere della Sera. Queste le sue parole sulla scomparsa del figlio 15enne, morto lo scorso luglio dopo una lunga malattia. Julio Sergio, come sta? «Enzo manca tutti i giorni. Il […]

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Julio Sergio Bertagnoli, ex portiere della Roma che di recente ha dovuto un dramma familiare che ha travolto la sua vita, ha parlato oggi al Corriere della Sera. Queste le sue parole sulla scomparsa del figlio 15enne, morto lo scorso luglio dopo una lunga malattia.

Julio Sergio, come sta?
«Enzo manca tutti i giorni. Il suo ricordo vive in ogni cosa che facciamo. Il ricordo di lui, di ciò che abbiamo fatto assieme, di ciò che eravamo».

Avete combattuto per cinque anni.
«Nel 2020 gli hanno diagnosticato il tumore. Abbiamo lottato ogni giorno e in ogni modo. Abbiamo anche vissuto momenti incredibili insieme».

Come avevate scoperto il tumore?
«Enzo aveva spesso mal di testa. A questo si erano aggiunti dei problemi di equilibrio. Dopo molte visite e nessuna risposta, una pediatra ci aveva consigliato di fare una tomografia. Ricordo bene quel giorno. L’esame era iniziato alle 5 di pomeriggio. Alle 8 di mattina del giorno successivo era già in sala operatoria per il suo primo intervento alla testa».
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Nell’ultimo periodo le condizioni erano peggiorate.
«Ho vissuto le ultime settimane al suo fianco. Un giorno ha chiamato me e sua mamma per parlarci. “Sono stanco, ho bisogno di riposare”. Era stanco, debole. La malattia si era aggravata. Se n’è andato per un’infiammazione ai polmoni durante l’ultima radioterapia. Il sistema immunitario non rispondeva più».

Cosa significa per un genitore sentirsi dire quelle parole da un figlio?
«Ti crolla il mondo addosso. Allo stesso tempo, però, comprendi cosa sia l’amore incondizionato per qualcuno. Da papà avrei voluto che restasse ancora con noi, ma lasciarlo andare era la cosa migliore per lui, era la sua volontà».

Come avete vissuto gli ultimi giorni?
«Sono stati molto intensi. Il venerdì era stato indotto in coma farmacologico. Sapevamo che non si sarebbe più risvegliato. Aveva ancora battito, ma non sarebbe tornato da noi. La domenica se n’è andato».

Il vostro video dal parrucchiere aveva fatto il giro del mondo?
«Non pensavo potesse avere quella risonanza. Enzo si arrabbiava ogni volta che doveva tagliare i capelli. Era un momento delicato, andava sempre in giro con un cappellino. Io cercavo di donargli spensieratezza. L’idea di tagliarli insieme è nata per questo. Il video è stato anche un modo per dare sostegno a chi stava vivendo la stessa nostra situazione».

Ha ricevuto molti messaggi di vicinanza?
«Sì, anche dal mondo del calcio. Mi ha fatto piacere. Sapere che c’è il rispetto dell’essere umano e che gli altri ti vogliono bene per la persona che sei: sono sensazioni che donano un po’ di conforto».

Ha mai pensato di non farcela?
«Non era un’opzione. Non lo era per Enzo, per mia figlia, per la mia famiglia. Se avessi mollato, tutto sarebbe crollato. È una consapevolezza che ti fa scoprire una forza interiore che prima non avresti mai immaginato di avere. E quella forza ti aiuta a rimanere in piedi anche dopo la sua morte».

Ha pianto in questi anni?
«Con lui poche volte, non potevo permettermelo. Da solo sì, ho pianto. Ho pianto tanto. Mi aiutava a sfogarmi. È dal giorno della diagnosi che convivo con un senso di angoscia. Ogni mattina mi alzavo con l’idea di dover trovare una soluzione, una cura per mio figlio. Ci sono dei momenti in cui fai fatica ad andare avanti e crolli. Ho da tempo uno psicologo e da poco anche uno psichiatra. Senza il loro aiuto è dura reggere. E anche la fede mi ha aiutato tanto».

Come l’ha aiutata la fede?
«A capire che non tutto deve avere una spiegazione».

Si è sentito in colpa?
«All’inizio i pensieri sono tanti, ti chiedi se hai qualche responsabilità per quanto è successo. Mi domandavo per esempio se la separazione tra me e sua mamma potesse aver influito. Mi chiedevo perché proprio a noi. Con il tempo ho capito che ci sono variabili che non puoi controllare, come la malattia. Arrivano e basta. L’unica cosa che puoi fare è accettarlo e combattere».

Le capita di parlare con lui?
«Enzo è sempre con me. Lo vedo e lo sento in ogni attimo. È nelle mie giornate e nelle mie preghiere. E ogni tanto ci parlo. Quando ho momenti difficili gli chiedo una mano, so che mi può aiutare».

Che ragazzo era?
«Incredibile. Non ha mai pianto, nonostante da anni non avesse una vita normale. Aveva smesso di svilupparsi fisicamente, non aveva più i capelli dietro alla testa. È stato capace di crearsi il suo mondo, di trovare una sua forza interiore. E pensava sempre agli altri. Un episodio penso possa far comprendere la sua umanità».

Ci dica.
«In una delle nostre chiacchierate gli avevo detto che sarei dovuto essere al suo posto. “No papà, tu devi pensare a mamma e a mia sorella”, la sua risposta. Questo era Enzo. E questi anni, nonostante spesso gli sviluppi fossero negativi, sono stati miracolosi. Penso sia stato l’unica persona in grado di reggere sei trapianti».

Era un appassionato di calcio?
«Assolutamente. Guardava tutte le partite del Santos e, quando possibile, della Roma. Aveva detto alla mamma che avrebbe voluto fare dei corsi da allenatore per venire a lavorare con me. Prima di andarsene mi ha chiesto di incontrare Neymar. Per fortuna siamo riusciti a organizzare la visita».

Qual è la cosa più importante che le ha insegnato?
«Il valore delle cose, il senso della vita. Nella frenesia della nostra quotidianità ci dimentichiamo di ciò che conta: l’amore, le persone al nostro fianco, fare del bene agli altri. Enzo mi ha aiutato a capire questo. È venuto per portare un messaggio: la vita non va sprecata, ma va vissuta. Senza l’oggi non c’è il domani. Bisogna vivere il presente».

Cosa direbbe a chi vive la sua stessa situazione?
«Vivere la situazione nel modo più sereno e spontaneo possibile. Fare del bene, di esprimerlo e dimostrarlo agli altri. Non possiamo controllare ogni cosa. E ora voglio essere d’aiuto a queste persone. Insieme ad altre famiglie sono al lavoro per creare strutture di supporto, sia a livello economico che psicologico. Chi vive la malattia non è mai pronto. Ti sconvolge la vita».

Il dolore diminuirà?
«Non se ne andrà mai. Enzo non c’è e non ci sarà più. Ci rivedremo tra qualche anno».

Fonte: Corriere.it
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